Un ricordo a 8 anni dal sisma
Ci sono ricordi che rimangono impressi nella nostra mente in modo indelebile, anche nel più piccolo dei particolari. È stato così per quella tragica notte del 20 maggio del 2012, che mai come quest’anno, fu un anno bisesto e, come dice il detto: anno funesto. Eravamo da pochi giorni rientrati dal viaggio di nozze ed era una delle prime notti che io e mia moglie dormivamo insieme, nel nostro appartamento al terzo piano.
Una notte particolare, dato che il giorno seguente avrei assistito alla mia prima finale, seppur di Coppa Italia, allo stadio Olimpico di Roma dopo la vittoria dello scudetto -il primo dopo calciopoli e la serie B, festeggiato con una corsa folle nel prato di un resort gestito da un austriaco in Sudafrica. Un evento che, al di là della partita, rappresentava un momento magico per celebrare e salutare la squadra neo campione d’Italia. Proprio nel mezzo della notte, di colpo un boato, il risveglio, un lungo e interminabile movimento: il letto, l’armadio… Sento ancora nell’orecchio il rumore stridente di quelle ante.
Non sono mai stato Cuor di Leone, cerco subito il contatto con le mani del l’Ila, seppur nel buio cerco il suo sguardo, la sua voce, mi aspetto il suo tradizionale “torna a dormire”, che mi ripete nelle mie frequenti notti dal sonno agitato e molesto. Invece, quella volta, nessun brutto sogno. La palpitazione del cuore è figlia di una paura vera, reale. Capisco che è il terremoto. Una questione di secondi. Mi alzo? Corro fuori? Mi posiziono sotto lo stipite della porta? Niente di tutto ciò. La freddezza delle donne è una di quelle caratteristiche che ho sempre invidiato al gentil sesso. Rimaniamo immobili e abbracciati sul letto, fino la termine del movimento per 10, 20, forse 30 secondi, che sembrano però un’eternità. Appena la terra finisce di tremare, scatto giù dal letto, infilo le scarpe da ginnastica, la prima giacca che trovo in corridoio e giù di corsa per le scale.
Nel 2012 ero sindaco. La distanza dal Comune rispetto alla mia abitazione del tempo è inferiore a 100 metri, davvero un chiaro esempio di smart working. Raggiungo il mio ufficio che, non so per quale motivo, ritengo un covo sicuro. Mi raggiunge in breve tempo il mio capo ufficio tecnico, facciamo il punto e partiamo in un primo sopralluogo sui luoghi più sensibili, a partire dalle chiese che avrebbero visto svolgersi le funzioni settimanali da lì a poco, visto che era domenica. Per fortuna il nostro Comune e i suoi edifici, nonostante la grande paura, non hanno subito danni rilevanti, ma solo qualche calcinaccio caduto. L’ultimo fermo immagine è delle 9 di mattina: siamo in Chiesa a Casalgrande Alto e, mentre usciamo dal sopralluogo interno, nel piazzale adiacente iniziano a arrivare i primi ragazzi con l’abito bianco nell’appendiabiti… A breve avrebbero dovuto celebrare la prima comunione. Non so perché, ma solo in quel momento, guardando i genitori vestiti di tutto punto accompagnare i figli alla cerimonia, mi accorgo che stavo indossando ancora il pigiama. Un pigiama della Fila blu e grigio, che ancora oggi indosso e che tutte le volte mi riporta a quel giorno del 2012.
A otto anni da quella data ho voluto usare un ricordo personale, forse un modo insolito per commemorare un evento che ha profondamente segnato la nostra comunità dell’Emilia-Romagna. Ma proprio da quell’esperienza, a otto anni di distanza, possiamo dire che, dopo la “botta”, ci siamo rialzati e siamo ripartiti, rimboccandoci le maniche. Insieme, abbracciandoci e sostenendoci a vicenda. Siamo una comunità solidale e coesa che mi rende orgoglioso, oggi come allora, di essere emiliano-romagnolo. Ed è questa, dopo tutto, il senso della nostra identità profonda e il vivido colore della nostra storia.
P. S. Dopo poche ore, appurato il fatto che a Casalgrande i danni erano stati esigui e che il terremoto si era accanito contro la bassa reggiana e modenese, i nostri cittadini erano già al lavoro per dare una mano.